I ferri del mestiere

La presenza social per chi traduce

Logo di ElleDi Traduzioni con sovraimpressa la scritta "Presenza social per chi traduce: getting likes or getting business?"Presenza social per chi traduce: la sua gestione, non da oggi, mi lascia molto perplessa.

Non parlo ovviamente degli LSP (per cui valgono obiettivi e meccanismi che non presumo di conoscere), ma di chi svolge la libera professione, un ambito sul quale mi sento un po’ più ferrata: perché sono anche io una libera professionista; e perché, per qualche anno, ho fatto la SMM per una realtà non commerciale e che non c’entra con la traduzione, e ho approfondito un po’ gli ambiti del digital marketing, anche tramite corsi specifici. Il che mi è venuto molto comodo anche nell’ambito della mia attività “principale”, dato che oggi una presenza social è un requisito, nel settore della traduzione come in molti altri.Partiamo da qui.

Una presenza social per chi traduce è davvero necessaria?

Sì, nel senso che ho sentito spiegare benissimo da Mafe de Baggis: per noi “piccol*” una presenza social dignitosa serve in genere da conferma per la persona che viene a cercarci online, dopo essere arrivata a noi per altri canali. In altri termini:

non è attraverso i social che ci arrivano i clienti

Almeno non come canale primario; e quale sia questo canale primario sarà essenziale capirlo (passaparola di collegh* o clienti? Iscrizione a un albo o associazione? Partecipazione a conferenze o eventi di settore? Altre attività di marketing diretto?).

La mia esperienza lo conferma decisamente: le (poche) richieste di potenziali clienti arrivate direttamente tramite account social si sono sempre rivelate totali perdite di tempo (per tradurre verso la lingua straniera, in settori che non conosco, oppure di soggetti privati che sono scappati di fronte ai miei preventivi).

No, nel senso che una presenza social dignitosa richiede tempo e capacità; ma per una piccola realtà non ha senso rivolgersi a un SMM/agenzia. Per motivi economici, ma anche perché, probabilmente, il risultato risulterebbe troppo costruito. Ha senso, invece, (imparare a) gestire da soli questa presenza. Il che non è facile, anzi, ma nemmeno impossibile: le risorse online abbondano, con il grande vantaggio che si tratta di un’attività di marketing che richiede tempo ma non investimenti economici (tralasciando il discorso campagne e post sponsorizzati).

Presenza social per chi traduce: gli unici due canali veramente irrinunciabili (secondo me)

Guardando alla presenza online di molt* collegh*, mi pare però che sia considerata un imperativo categorico e una priorità assoluta.
È necessario esserci a tutti i costi, sempre e dappertutto: Facebook ci mancherebbe, ma pure Twitter, Instagram, LinkedIn, Pinterest…
Naturalmente un sito, e un blog. E per tutti questi canali deve esistere una strategia di comunicazione coordinata. E così arriviamo (anche) al famoso personal branding di cui tutti oggi parlano in continuazione.

Al di là del fatto che non esistono regole scolpite nella pietra (io non vedo attinenza tra Pinterest e traduzione, ma qualche collega potrebbe essere capace di usare anche quel canale in modo efficace), la mia personalissima opinione è semplice: gli unici due canali veramente irrinunciabili per un* professionista della traduzione, sempre nell’ottica della “conferma” di cui dicevamo sopra, sono LinkedIn e un sito Web.

Non so le vostre, ma le mie giornate sono di 24h, che devono includere un numero ragionevole di ore in cui dormo, mangio e magari (!) mi lavo; in cui mi rilasso e faccio cose che non c’entrano con il lavoro; in cui faccio cose che c’entrano con il lavoro (contabilità, formazione… e appunto marketing) ma non producono direttamente reddito; e vivaddio in cui traduco, rivedo (e tengo corsi). Ovvero le attività per cui fatturo a fine mese.

Quindi, devo stabilire delle priorità: il marketing è fondamentale, ma deve essere funzionale alle attività che producono reddito, non viceversa.
Se stare sui social mi piace tanto e che belle le fotine di tisane e di gatti e di incontri con collegh* (fatte pure io, eh) e gli shoot fotografici e studiamo un logo e la comunicazione coordinata e il blog e bisogna scrivere almeno un post alla settimana se non due… ma tutto questo mi richiede uno sforzo sproporzionato rispetto ai risultati che ottengo in termini di fatturato, ALT, c’è qualcosa che non va.

A meno che io, consapevolmente, dedichi più risorse del dovuto (nel senso di cui sopra) a queste attività semplicemente perché mi piacciono, mi rilassano, etc. Ma allora diventa un hobby, e deve avere la relativa priorità (se traducete per riempire il frigo, s’intende).

Dove essere, ma anche come esserci: quali contenuti pubblicare

Oltre che del famigerato personal branding, ovunque si parla e si scrive di storytelling, che è praticamente l’equivalente social dello scalognouna cosa magnifica, ma pure quella dev’essere funzionale al solito obiettivo “di business”: per quanto in modo mediato ed “elegante”… altrimenti tanto vale postare solo cose del tipo

“VENITE DA ME PER LE VOSTRE TRADUZIONI CHE SONO BRAVA”.

Soprattutto, bisogna saperlo fare. E anche se la nostra professione si presta forse meno di altre, cioè bisogna essere particolarmente capaci, questo non significa che fare storytelling per la traduzione significhi pubblicare quel che capita; e, soprattutto, senza definire una linea di confine chiara tra personale e professionale.

Sicuramente è anche una questione di carattere, o perfino generazionale (sigh). Ma io vedo ovunque, su account professionali, contenuti che non solo, probabilmente, mi imbarazzerebbe pubblicare sui miei profili personali; ma che soprattutto non credo portino alcun vantaggio dal punto di vista dell’attività. Anzi, mettendomi nei panni del* potenziale cliente, mi sembrano controproducenti.

Il tocco personale, dite voi? Certo, ci sta, sono io la prima a non condividere sempre e solo articoli che parlano di CAT o di tecnologia per la traduzione. Ma tre giorni di lamentazioni perché abbiamo l’influenza?  Selfie e foto di outfit (e non outfit che abbiano necessariamente a che fare con un’occasione professionale, che per un interprete potrebbe starci)? Rant contro l’agenzia che non ci paga o contro il software che non funziona (facendo magari sorgere il dubbio legittimo che siamo noi a non saperlo usare…)?

Cosa dovrebbe pensare quel o quella famos* cliente potenziale cui-hanno-parlato-bene-di-noi di questo tipo di contenuti? Aiutano a comunicare le nostre competenze e la nostra professionalità? Lo o la convincono a sceglierci?

E lasciatemi aggiungere un’altra cosa: il nostro aspetto fisico c’entra così tanto con il lavoro che facciamo?
Non trovate che, oggi come oggi e soprattutto in una professione molto femminile come la nostra, sia addirittura rischioso, se non come minimo di cattivo gusto, puntare (tanto, troppo) su questo aspetto?*

È scontato che ognun* valorizzi i propri punti di forza, ed è innegabile che essere di bella presenza sia sempre un vantaggio, in ogni contesto. Ma da traduttrice, professionista “invisibile” per definizione, ha davvero senso, sempre dal punto di vista dell’immagine professionale che voglio proiettare, che io popoli i miei account social di quel tipo di contenuti, per quanto piacevoli all’occhio?

Are we in the business of getting likes or… getting business?

Ma come, direte voi, ma se sono proprio i contenuti “personali” (gatti o selfie o rant non importa) a ottenere più like, più commenti, insomma più engagement?
Vi rispondo in inglese, così ci sentiamo tutt* più figh*: “Are we in the business of getting likes or getting business?”.

Quel tipo di engagement conta? Porta clienti? Porta fatturato? Avete fatto caso che la maggioranza di quei like e commenti viene sempre e solo da colleghi e colleghe?

Certo, ben collocarsi all’interno del settore e agli occhi di colleghi e colleghe è ovviamente importante, soprattutto perché può avere un ritorno in termini di passaparola; ma, almeno in teoria, noi dovremmo condividere, pubblicare, scrivere (vale anche per il blog!) pensando alla clientela.
Cosa molto più difficile e faticosa.

Naturalmente tutto quanto sopra può non valere sempre: magari una presenza multi-canale, un piano editoriale serrato e/o i contenuti “personali” che cito sopra per voi funzionano perfettamente.
Ma forse vale la pena riflettere bene sulla nostra presenza online e sul rapporto costi-benefici che ha per la nostra attività, e farlo dati alla mano, non semplicemente basandosi sul fatto che è piacevole ricevere like o “pacche sulle spalle” virtuali…

*Disclaimer: io sull’estetica non potrei puntare nemmeno se volessi, e ne sono consapevole; quindi sì, potete pensare che sia un caso di 🦊 e 🍇 😉